mercoledì 9 febbraio 2011

Un discorso da Oscar

Ci sono film le cui ambizioni sono chiare fin dal trailer e probabilmente già da molto prima, film nati e confezionati appositamente per accaparrarsi il maggior numero di premi e che puntano direttamente all'ambita e dorata statuetta dell'Oscar.
Ed io di solito diffido sempre un po' di tali film perchè rischiano di essere tanto perfetti quanto vuoti, pieni di smielate romanticherie per forzare la lacrima e rabbonire i duri cuori dei membri dell'Accademy.
Beh, sono felice di dire che The King's Speech non è uno di quei film, o che almeno non lo dà a vedere. Certo, i buoni sentimenti ci sono tutti, ma non sono quei buoni sentimenti fastidiosi, quelli che ti provocano il diabete solo a pensarci, sono quelle belle storie che alla fine ti mettono di buon umore e che ti fanno pensare che in fondo c'è del buono in questo mondo.
Se in un primo momento può sembrare che la trama sia alquanto venale (in fondo un discorso alla radio, quando la seconda guerra mondiale incombe è cosa da nulla), c'è molto di più tra le righe e il "Discorso" diviene metafora di saper affrontare la vita senza paure, avendo fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, superando quei timori e quelle psicosi che ci bloccano. Nel caso di Bertie, futuro Re Giorgio VI, l'insicurezza, l'incomprensione con il padre e il fratello, la paura di non essere all'altezza di un ruolo che, probabilmente, non avrebbe voluto, sono causa di una imbarazzante e problematica balbuzie che sua moglie Elisabetta affida alle cure dell'eccentrico logopedista Lionel Logue. Non è difficile capire cosa possa esserci di più: non è la logopedia in sè ad aiutare Bertie, ma la consapevolezza che c'è qualcuno che crede in lui, qualcuno che lo stima e che lo considera un uomo degno di amore e ammirazione.
Qualcuno che crede davvero che lui possa essere un buon Re.
Non sorprende, quindi, che il "discorso" di Bertie diventi anche il nostro, che ci si affezioni e che si arrivi ad amare la profonda umanità dei personaggi, oltretutto quando ad interpretarli c'è un sempre grande Geoffrey Rush, una deliziona Helena Bonham Carter e soprattutto un Colin Firth in stato di grazia (credo che l'Oscar per lui sia d'obbligo), capace di passare dalla regalità alla forza d'animo alla fragilità solo con un'occhiata e che ha svolto un lavoro di linguaggio davvero notevole (da vedere assolutamente in originale).
Alla fine mi sono sentita meglio anch'io, liberata da un peso e di buon umore, non è certo un capolavoro di perfezione cinematografica, tecnicamente parlando, ma mi ha coinvolto ed emozionata... non è questo che un film dovrebbe fare?

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